Adele si era dimenticata di comprare il burro quella mattina in bottega, al momento di aggiungerne una noce nella pietanza si accorse di esserne sprovvista. “Ebbene” si disse “faccio una corsa in negozio e lo compro”. Si tolse il grembiule che copriva la sua camicetta azzurra e la gonna blu, si diede una ravviata ai capelli neri e folti, prese il portamonete, la borsa di stoffa che era solita usare per la spesa e si avviò verso la porta. Tolse la chiave dalla serratura all’interno e dopo averla inserita all’esterno della porta diede due mandate. La sfilò con noncuranza e la ripose, come sempre, sotto lo zerbino, Inforcò la sua bicicletta e si avviò verso il negozio poco distante…Era il 1960. Marina quella mattina non aveva molta voglia di recarsi al lavoro però doveva per forza andarci, non poteva certo permettersi di assentarsi, il suo capo ufficio aveva impegni inderogabili da espletare con una delegazione svizzera ed aspettava solo lei. Era una giornata importante Marina indossò un tailleur sobrio grigio scuro, sopra al top bianco, infilò un paio di scarpe tacco 12 nere e si pettinò aggiungendo una spruzzatina di lacca. Sulle labbra si passò un rossetto rosso chiaro e un po’ di fard sulle guance. La sua immagine riflessa allo specchio rimandò una bella donna sui trent’anni, nel pieno delle sue forme. Aggiunse due gocce di Chanel dietro i lobi delle orecchie e si prestò ad uscire. Prese la sua borsa di Prada cercò la tessera magnetica chiuse la porta alle sue spalle e passò la tessera nella fessura accanto all’uscio blindato, Digitò il Pin segreto per l’antifurto, ripose la carta magnetica nella borsa e si avviò verso la sua Merceds. Sfiorò la maniglia della portiera e un rumore secco l’avvisò che poteva salire. Era il 2014.
LA MARIA DELLE PUNTURE Maria era una bella signora, i capelli neri corvini, nonostante l’età avanzata, di corporatura piuttosto abbondante, ma non obesa. La madre, che nel 1800 faceva la levatrice, le aveva insegnato a fare le iniezioni e a prendersi cura di lei negli ultimi anni della sua vita. Quando si stabilì a Cossato dopo un lungo viaggio con la Topolino di un nipote, ( poi proprietario del Jolly), le si presentò un mondo assai diverso, dalle campagne che aveva lasciato nel Veneto. Maria era forte, aveva sei figli da sfamare mentre il marito lavorava in Germania, ma non si perdette d’animo. Scaricò dalla macchina sacchi di farina, sementi e qualche pulcino per farne un bel pollaio e con i suoi figli, che la raggiunsero a mano a mano, si stabilì in via Polle nella casa assegnatale dallo Stato che qui chiamavano “Case Fanfani”. Non ci mise molto a socializzare e a farsi voler bene, la si vedeva sfrecciare in bicicletta come un missile, per andare dalla Elsa e Leo Gelondo a fare la spesa o al mercato ogni mercoledì mattina. Non aveva un lavoro in fabbrica come tutti qui, perché aveva sempre fatto la contadina e poi la famiglia numerosa la teneva molto occupata, però non disdegnava andare di casa in casa a fare le“punture” a chi non stava bene. Infatti i vicini iniziarono ad appellarla “la Maria delle punture” e di conseguenza poi tutto il circondario. Quando passo per via Polle mi sembra di vederla ancora affacciata al balcone che mi saluta come quando arrivavo da scuola. Era mia nonna!
LA DONNA SUL TERRAZZO
L’afa del pomeriggio allentò finalmente la sua morsa e permise a Lucia di uscire sul terrazzo, per innaffiare le sue piante, quando il sole stava calando dietro le montagne. Sebbene fosse ancora chiaro Lucia aveva già consumato la cena, ormai da anni aveva preso l’abitudine di mangiare presto per dedicarsi poi alla lettura o seguire qualche programma televisivo. Tolse le foglie ingiallite e i fiori secchi, e con un minuscolo annaffiatoio versò l’acqua nei vasi. Si sedette sulla sedia nell’angolo, godendo di quella brezza serale che le accarezzava il viso dandole un po’ di refrigerio. Sul condominio di fronte, un ultimo tenue raggio di sole illuminò ancora per qualche istante la facciata ad Ovest colorandola di un rosso acceso per poi cadere nella semioscurità. Gigio, il gatto soriano, scese dal divano e la raggiunse accoccolandosi in grembo. Si stiracchiò, le fece un po’ di fusa, baciandole il viso e riprese a dormire godendo anch’esso della frescura. A mano a mano che il cielo si oscurava sempre di più, Lucia osservò le finestre del palazzo. Una dopo l’altra le tapparelle, rumoreggiando, si abbassarono, lasciando filtrare un po’ di luce dalle fessure, permettendo così a Lucia di vedere le ombre dei condòmini dietro ad esse. “Quante storie ci saranno in ogni appartamento?” pensò. –”Ognuno si ritrova a casa la sera, dopo una giornata di lavoro o di studio e ciascuno avrà qualcosa da raccontare ai familiari”. La fantasia della donna cominciò a prendere forma e immaginò la vita di quelle, che per lei erano solo ombre. La prima cosa che la colpì fu la coppia del primo piano, che dal suo punto di osservazione poteva vedere molto bene: erano due anziani, marito e moglie. La tapparella semi abbassata e la finestra aperta ne svelava il soggiorno, la luce azzurra del televisore rischiarava quel tanto da vederne l’arredamento: due poltrone e un divano dello stesso colore grigio, il mobiletto con il televisore e una porzione di credenza. Le due figure erano sedute uno di fianco all’altra. Sebbene il volume fosse alto, tanto da arrivare alle orecchie di Lucia, sembrava invece che ai due anziani poco importasse di ciò che si stava trasmettendo. Lei con la testa china sferruzzava con i ferri da calza, forse stava preparando una sciarpa per il proprio consorte. Ogni tanto alzava lo sguardo verso lo schermo, riposando le mani qualche istante e poi ricominciava. Lui teneva un giornale tra le mani ma non pareva volesse leggerlo, probabilmente lo sfogliava durante gli spot pubblicitari. Di tanto in tanto le loro teste annuivano o si scuotevano in senso di diniego, segno evidente che stavano anche conversando. “ Che bello!” Pensò Lucia -:”Avere ancora un compagno a quell’età, avere qualcuno che ti dica buongiorno al mattino e buonanotte la sera, dividere ancora un programma in TV o solamente fare un po’ di conversazione…” Scacciò un triste pensiero che l’avrebbe turbata e spostò lo sguardo al piano di sopra. La finestra era aperta e la persiana ancora alzata, con la zanzariera abbassata che oscurava appena appena la visuale. I componenti di quella famiglia: padre, madre e un piccolo bimbo erano ancora a tavola. Lei, dopo aver servito il pasto al marito si sedette accanto al bimbo, seduto sul seggiolone, imboccandolo e implorandolo di aprire la bocca per ingoiare la porzione di pappa. Un fragore di risate fece supporre alla spettatrice che quel frugoletto aveva più voglia di giocare che di mangiare e, con la sua ingenuità, avesse pronunciato qualche parola divertente. Finita la cena la donna prese il bimbo in braccio e sparì dalla visuale di Lucia, il marito invece si mise a sparecchiare, lavò i piatti e riassettò la cucina. “Esistono ancora mariti così?” - Si chiese - “Forse saranno sposati da poco”. Fu la sua risposta. Qualche istante più tardi anche quella tapparella si abbassò. Era ormai buio inoltrato quando le luci che filtravano dalle finestre si spensero piano piano, ad una ad una come un grande albero di natale. Lucia guardò l’orologio al polso, che segnava l’una, si accorse che si era fatto tardi, i suoi pensieri le avevano fatto perdere la nozione del tempo. Diede un ultimo sguardo al condominio di fronte quando fu attratta dalla finestra del quinto piano. Un’ombra femminile, appena percettibile dalle fessure della tapparella si spostava avanti e indietro ritmicamente sparendo per alcuni minuti per poi riapparire. Lucia percepì, stranamente, uno stato di inquietudine provenire da quell’alloggio. Spostò lo sguardo e vide una testa sporgere dalla finestra del lato est dello stesso appartamento. La figura femminile intanto continuava a passeggiare avanti e indietro portando la mano all’orecchio come se stesse telefonando a qualcuno. Lucia non era un’impicciona, non voleva certo interessarsi dei fatti altrui, si era persa nelle sue fantasticherie immaginando la vita di quelle persone, perfettamente sconosciute, che le abitavano di fronte. Ognuna di esse con i suoi problemi, le sue gioie e i suoi dolori. Decise quindi di rientrare quando sentì in lontananza il rumore di un motorino che avanzava. Prese Gigio, lo posò a terra si alzò dalla sedia e vide una ragazzina che arrivava a velocità piuttosto sostenuta, in sella al suo scooter. Il lampeggiante del cancello automatico del condominio si accese e la ragazzina sparì ingoiata dal sottopasso che portava ai garages. Qualche minuto dopo tutte le luci di quell’alloggio si accesero e Lucia poté vedere chiaramente le ombre di tre persone gesticolare in modo frenetico e concitato. “Eh la solita scappatella da ragazzini...avrà fatto tardi e ora sente le sue” Rifletté sorridendo. Rientrò in casa e mentre a sua volta stava abbassando la tapparella vide le due figure femminili unite in un abbraccio. “La mamma è sempre la mamma…” si disse. Prese il gatto e andò a prepararsi per la notte.
L’ULTIMA OCCASIONE
Il profumo dolciastro e aromatico del tabacco della pipa riempiva l’aria dello studio; spirali di fumo bianco e caldo salivano verso il soffitto passando per il lampadario sul quale si depositava uno strato giallino di nicotina. Bernard aspirava dal bocchino l’aroma del tabacco, molto lentamente e di quando in quando, pestava sul fornello con il pigino di metallo affinché la miscela restasse pressata e meno combustibile. Era ormai un rituale. Ogni sera, dopo aver consumato il frugale pasto, si accomodava nello studio sulla sua sedia a dondolo, apriva il Corriere della Sera, caricava la sua pipa e stava lì a leggere e fumare nel silenzio più assoluto di quella casa ormai vuota. Margherita se ne era andata molti anni prima dopo una lunga e sofferta malattia lasciandolo senza eredi. Sebbene cercasse di non pensare al suo destino, ogni cosa in quella casa gli rammentava la povera moglie. Già dal primo caffè del mattino all’ultimo della sera. Ogni cosa era rimasta al suo posto: gli abiti nell’armadio, i profumi sulla toletta in camera, l’accappatoio appeso nel bagno, persino il mazzo di chiavi e l’ombrello all’ingresso. Bernard non volle mai liberarsi dei suoi ricordi, gli pareva così di vederla tornare a casa da un giorno all’altro, anche se lo sapeva molto bene che si trattava solo di una sua illusione. Vedere le sue cose, toccare e annusare ogni suo indumento lo faceva sentire ancora vicino a lei. A volte la sua mente si offuscava e non riusciva più a ricordare distintamente i suoi lineamenti: il colore dei suoi occhi o dei capelli, quindi apriva il cassetto del tavolo in salotto e ne tirava fuori vecchi album che sfogliava adagio, ripercorrendo i luoghi e i bei momenti passati con lei. Dieci anni di solitudine erano davvero troppi e in tutto quel tempo non aveva più avuto l’occasione, né la voglia, di conoscere un’altra donna. Alcuni amici di vecchia data ogni tanto passavano a trovarlo invitandolo a qualche festa o a qualche gita ma Bernard declinava puntualmente ogni invito. “Vi ringrazio amici, non me la sento…” Ripeteva, -”Andate voi, io vi sarei d’ingombro, ho male la schiena e non sarei di compagnia…” Il ripetersi di quei rifiuti presero ben presto il sopravvento tant’è che piano piano gli amici si dileguarono lasciandolo davvero solo. A lui stava bene così, attorniato dai suoi ricordi in quella casa troppo grande ma accogliente. I giorni d’inverno li passava guardando la televisione, leggendo i suoi libri e i suoi giornali, che acquistava ogni mattina all’edicola in fondo alla via. D’estate invece si occupava del suo orticello e curava amorevolmente i fiori che aveva seminato Margherita nel loro giardino. Ogni domenica mattina si vestiva di tutto punto, sbarbato e profumato, preparava un bel mazzo di fiori e si recava a piedi, al cimitero per un saluto alla sua adorata. Le parlava come se fosse lì, davanti a lui, raccontandole i fatti della settimana, le notizie che sentiva dal fornaio o alla radio. Poi, nel cammino a ritroso, si fermava in pasticceria e acquistava qualche bignè da consumare dopo pranzo. Tutto era ritmico, uguale, quasi calcolato; ogni giorno, ogni ora, ogni anno ma quella domenica mattina qualcosa lo distolse dalla solita routine “Buona domenica Bernard” salutò il pasticcere “Il solito vassoio di bignè?” “Si, il solito” rispose -”Come sta oggi? Vedo che ha preso il bastone, ancora la schiena? Certo che con questo tempo…” -”Eh si, caro Bruno, il tempo passa e gli acciacchi si fanno sentire, ma finché riesco a camminare andiamo bene…” -Bravo Bernard è così che si reagisce, ecco a lei le sue paste, fanno sette euro in tutto, le serve altro?- “No, grazie va bene così, buona domenica e arrivederci”- Uscì dal negozio con il vassoio di paste in una mano e il bastone dall’altra dirigendosi verso casa zoppicando. D’improvviso uno stridulo di freni e un botto lo fece sobbalzare. Dalla parte opposta della strada qualcuno era stato investito. Quasi all’istante un capannello di persone si raccolse intorno al malcapitato e Bernard, incuriosito e anche un po’ agitato, si recò a vedere cosa era successo. Distesa a terra e dolorante una donna anziana si stava lamentando, accanto a lei una bicicletta ridotta a un rottame. Il viso era ricoperto da un rivolo di sangue, le ginocchia sbucciate uscivano dalle calze di nylon lacerate e le scarpe erano finite una distante dall’altra. Bernard era scosso, guardò la donna e rimase ammutolito. “Clorinda… oh mio Dio!” furono le sole parole che riuscì a pronunciare. La donna alzò appena lo sguardo e con un fil di voce sussurrò: “Bernard?” Il capannello lasciò posto all’ambulanza che stava accorrendo e un medico si rivolse alle persone presenti. “Qualcuno conosce questa donna?”- “Si io, si chiama Clorinda Snaider e abita a circa cento metri da qui” Rispose Bernard. “Bene, sa se ha parenti?” -”No, non so è molto che non la vedevo”. “Io la conosco, abita vicino a me, è vedova e ha una figlia in Messico” -Replicò una signora sulla cinquantina. “Va bene, la ringrazio faremo gli accertamenti, ora la portiamo all’ospedale, a prima vista non pare abbia fratture ma lo sapremo solo dopo averla visitata.” L’ambulanza ripartì a sirene spiegate in mezzo al traffico mentre una pattuglia della volante si stava occupando della persona che aveva investito la poveretta. Il vociare dei presenti intanto si faceva sempre più forte. “Ma scusi è pazzo? Ma non ha visto la donna che stava attraversando?” disse qualcuno. “Al giorno d’oggi non si è sicuri nemmeno sulle strisce, quella povera donna le stava attraversando con la bicicletta per mano, probabilmente per essere più sicura e questo che fa? Le passa sopra?” replicò un altro. “ Dovrebbero togliere la patente a certe persone!” Urlò un terzo. Bernard si allontanò dal gruppo e riprese il cammino verso casa sconvolto da quell’avvenimento. Clorinda era stata una sua compagna all’università, l’aveva persa di vista e non l’aveva più incontrata per molti anni finché non andò ad abitare con Margherita nella stessa via. La vedeva di rado passare in auto e rarissime volte si era fermato per un saluto. La rivide molti anni dopo al funerale di sua moglie quando Clorinda gli espresse tutto il suo cordoglio. Durante il breve tragitto ripensò alle parole di quella donna, vicina di casa: “Dunque non ha nessuno che possa aiutarla se la figlia è in Messico ed è vedova...” Un senso di sconforto e di impotenza lo pervase, si rese conto che anche lui ormai non aveva più nessuno su cui contare. Giunto a casa si recò in garage ed osservò la sua Panda azzurra tutta impolverata, era molto tempo che non saliva in macchina, non si sentiva più sicuro nel guidarla e poi non ne aveva più avuto necessità. Aprì la portiera si sedette alla guida, appoggiò sul sedile di lato il pacchetto con le paste, girò la chiave sul cruscotto e mise in moto. Fece retromarcia e uscì dal cancello, si guardò intorno e notò che alcuni gladioli erano fioriti, quindi scese e andò a raccoglierne un bel mazzo. Clorinda era distesa sul letto d’ospedale con gli occhi chiusi, sul viso le erano stati applicati un paio di cerotti e le mani erano fasciate. Bernard le si avvicinò sedendosi sulla sedia accanto al letto, in silenzio, osservò quel volto pallido, qualche ruga le solcava le gote, i capelli spettinati ormai canuti le ricadevano sulla fronte. Quando passò un infermiere Bernard s’informò sullo stato di salute della sua amica. -” Non ha fratture ma solo escoriazioni, le è andata più che bene, se non ci saranno complicazioni sarà dimessa fra qualche giorno, vedo che ha portato dei fiori, aspetti le porto un vaso con dell’acqua…” Clorinda aprì gli occhi e accennò un sorriso nel vedere quell’uomo anziano porgerle la mano. “Grazie Bernard, sono passati tanti anni… mi fa piacere vederti, pensa avremmo potuto non vederci mai più...” Sussurrò. “Un vero amico è davvero per sempre, anche se non ci incontra mai…” Bernard si portò il dito indice sulle labbra. “Ssssss” bisbigliò, trattenendo a fatica una lacrima che gli stava scendendo sul viso. Un turbinio di ricordi lo commosse: si rivide giovane e aitante, spavaldo a volte, tra i banchi dell’ateneo e nel giorno della laurea. Clorinda lo aveva sempre ammirato, amato forse, ma senza mai darlo a vedere. Ognuno aveva preso strade diverse e ora, dopo tanti anni, il destino li aveva riavvicinati, forse ancora in tempo per vivere gli ultimi giorni della loro esistenza uno accanto all’altra.
A DUE PASSI DAL MARE Le onde in quel tratto di Mediterraneo schiaffeggiavano gli scogli con inaudita violenza quel giorno, lo Scirocco soffiava sulla costa a forza nove. Alti cavalloni schiumeggiando si infrangevano sugli scogli ritraendosi e avanzando ritmicamente. Le barche sul molo, sebbene ancorate e fissate, si lasciavano trasportare dal moto ondoso salendo e ricadendo di schianto. Al largo una leggera nebbiolina copriva l’orizzonte mentre cumuli e cirri formavano delle sagome strane e inquietanti. I pescatori avevano già tirato su le reti, messe ad asciugare, concedendosi una birra da Larentu, che gestiva un piccolo bar a ridosso del porto. Quante volte Filomena, con il cuore in gola, aveva atteso la barca di suo marito Angelo, che approdasse nei giorni di burrasca. Ogni volta era la stessa ansia, la stessa apprensione di non vedere giungere all’orizzonte quel Gozzo blu. Dopo tanti anni di lavoro anche Angelo ormai conosceva tutto del tempo, delle burrasche, annusava l’odore del vento e prevedeva i capricci del mare. Così quel giorno Filomena continuò a cucinare la zuppa di pesce in tutta tranquillità, sbirciando di tanto in tanto dalla finestra per poter scodellare la pietanza nel piatto, non appena lui avesse varcato la soglia. Il caldo estivo e la calura andavano scemando di ora in ora e con esso una fresca brezza si stava impossessando delle case bianche sulla collina. Lo scirocco aveva esaurito la sua energia e la calma era tornata su Cala Reale. La porta si aprì e Angelo entrò imprecando sul tempo. “Accidenti, anche oggi nulla di fatto, se continua così cambio mestiere!” Filomena sorrise, sapeva bene che il suo uomo non l’avrebbe mai fatto sul serio. Amava troppo quel lavoro per lasciarlo. “Su, su non t’abbacchiare, lavati le mani e siediti, la zuppa è pronta e domani sarà una giornata di sole vedrai!” Il profumo di pesce inondava l’ambiente circostante e Angelo, come sempre era affamato. Baciò la moglie appena sulle labbra e tutti e due si sedettero a tavola. Il televisore, sulla mensola era rigorosamente spento in quanto per volontà della donna, a tavola si doveva conversare e non fissare lo schermo ammutoliti e inorriditi dalle notizie dei telegiornali. Amavano le cose naturali perciò avevano scelto, alcuni anni prima, di risiedere in quell’isola dimenticata da Dio ma a contatto con la natura. La loro modesta casa si ergeva su un piccolo promontorio a mezza collina, lontani poche centinaia di metri dal mare ma isolati quanto bastava per essere indisturbati. Tre locali e una veranda costituivano l’abitazione Dietro la casa un orticello e qualche gallina. Era così che Filomena aveva sognato di vivere e riuscì a convincere il consorte quando l’agenzia immobiliare propose loro quella soluzione a pochi mesi dalle nozze. Non avevano ancora figli ma era già nei loro progetti averne uno l’anno successivo, a Dio piacendo. Finita la cena si spostarono sulla veranda ad ammirare il mare e il tramonto, sorseggiando un caffè bollente mentre il sole, di un rosso acceso, si tuffava nell’acqua all’orizzonte. Il mattino seguente Angelo si incamminò all’alba verso il suo Gozzo, l’aria era fresca e il cielo sereno, percorse il viottolo sterrato verso il porticciolo e salì a bordo. Il motore diesel sbuffò, scoppiettò, mandò un rivolo di fumo nero e attese che le cime fossero staccate dalle bitte, i parabordi issati nel pozzetto e che la mano di Angelo spingesse la manopola di avanzamento avviando la manovra per uscire dalla darsena. Filomena dormiva ancora e al suo risveglio, un paio d’ore più tardi, trovò, come ogni mattina, un fiore sul cuscino che, come sempre, annusò e infilò nel vaso di vetro in cucina. Si preparò la colazione e dopo aver rassettato la casa e dato il becchime alle galline inforcò la bicicletta e si avviò in paese per la spesa giornaliera. Il viottolo che portava al porticciolo era sassoso e sconnesso e quindi doveva tenere la bicicletta per mano e procedere a piedi finché non raggiungeva l’asfalto, poi risaliva in sella e pedalava per circa un chilometro per raggiungere la piazza del paese dove, accanto al municipio si svolgeva il mercato. Bancarelle variopinte esponevano merci di generi alimentari. Filomena stava acquistando della frutta nel banco di Tano quando avvertì un senso di nausea e un forte capogiro. Tano che la vide barcollare scattò con un balzo a sostenerla. “Filomena che c’è non ti senti bene?” - “No, ho soltanto un capogiro, forse un calo di pressione”. “-Meglio se ti fai vedere dal Dott. Garelli, guarda è in ambulatorio, ti accompagno” dall’altra parte della piazza c’era lo studio medico, Filomena entrò e si fece visitare. “ Dopo una visita accurata il medico espose la sua anamnesi. “ Non c’è nulla di ché preoccuparsi, anzi direi che è tutto nella normalità, il suo malessere è dovuto ad una gravidanza in atto, sono certo di non sbagliarmi ma per essere più precisi le consiglio di fare il test o rivolgersi al suo ginecologo.” Filomena rimase di stucco, non sapeva se essere felice o preoccupata. Non era nel suo progetto avere un figlio in quel periodo, doveva ancora sistemare alcune cose prima di volersi dedicare alla maternità: il mutuo della casa e poi avrebbe voluto mettersi in proprio per dare una mano a suo marito il cui mestiere da qualche tempo non andava molto bene. Un figlio avrebbe portato non pochi sacrifici a quella coppia adesso. “Signora, non è contenta? Ci sono dei problemi?- “Mah, non so, è tutto così improvviso, non avevo alcun sintomo…” “Può succedere che per i primi mesi ci sia un ciclo irregolare e alcune donne non se ne accorgono subito, ma le ripeto faccia le analisi così è più tranquilla”- Filomena uscì dall’ambulatorio frastornata e tornando a casa pensò e ripensò a come informare il suo uomo. Al contrario di quello che pensava la donna Angelo accolse la notizia con gioia e volle festeggiare offrendole la cena nell’unico ristorante dell’ isola. Filomena però non era convinta, la sua vita aveva sempre preso la piega che voleva lei, determinata, volitiva con mille progetti in testa non se la sentiva di affrontare questo nuovo imprevisto, forse era meglio prendere provvedimenti finché era in tempo. Non ne parlò con Angelo, non sarebbe ovviamente stato d’accordo. Voleva ancora riflettere, in ogni caso sarebbe stata una decisione molto sofferta e devastante ma era una scelta che doveva fare lei e nessun altro. I giorni che seguirono furono per Filomena molto tormentati. Alla felicità di Angelo si contrapponeva il suo conflitto interiore, un eventuale rimorso e l’incertezza di una presa di coscienza errata. Sebbene si dice che la notte porti consiglio Filomena le passava girandosi nel letto in preda alle sue elucubrazioni mentali alzandosi al mattino stanca e sfinita. Una decisione la doveva prendere però e anche molto in fretta. Quella mattina si svegliò più stanca del solito, Angelo, come sempre era già uscito molto presto lasciandole il solito dono sul cuscino. Svogliatamente si vestì e si incamminò sul sentiero verso il mare cercando lì la sua risposta. Non c’era nessuno sulla banchina, le barche dei pescatori erano tutte in mare, si sedette su una panchina di pietra e guardò l’orizzonte. La giornata era calda e ventilata, il mare calmo e qualche vela navigava lentamente a poche miglia dalla costa. -”Scusi, posso sedermi qui, è occupato?” Chiese una voce alle sue spalle obbligandola a voltarsi. -”No, no prego si accomodi”. La donna che le si sedette accanto era sulla trentina, non molto alta, bionda, di carnagione chiara. Teneva in braccio un bimbo di pochi mesi e una bimba per mano di circa tre anni. “Mi scusi, non volevo disturbarla ma è ora della poppata del piccolo e cercavo un posto tranquillo”. Filomena dapprima alquanto seccata da quella intrusione si intenerì nel vedere quel bimbo così piccolo e sereno che acconsentì a fare da spettatrice e dare un’occhiata alla bimba più grande che tranquillamente giocava con una piccola canna da pesca. Scambiarono poche parole, i soliti convenevoli finché, espletato il suo dovere, la donna si allontanò lasciando Filomena sola con i suoi pensieri. Solo allora si accorse che la bimba, tenuta per mano dalla madre, aveva un andamento claudicante, eppure era felice, aveva giocato con tranquillità senza nessun capriccio, anzi era molto apprensiva per il fratellino, informandosi dalla mamma se aveva mangiato a sazietà e se aveva fatto il ruttino. Anche la madre sembrava non preoccuparsi di quella malformazione della figlia, considerandola sana a tutti gli effetti. “Sembra una donna felice, nonostante tutto” pensò. Il giorno stava per volgere al termine, fra non molto Angelo sarebbe tornato a bordo della sua imbarcazione portando il frutto del suo lavoro. Filomena lo attese e quando Angelo sbarcò lo accolse con un bacio. Aveva preso la sua decisione proprio lì a due passi dal mare.
NULLA E’ PER CASO.
Il violento temporale non accennava a smettere, rivoli d’acqua scorrevano lungo il marciapiede e sull’asfalto rendendolo lucido, il vento soffiava così forte che l’ombrello, si capovolgeva in continuazione. L’acqua che trasbordava dalle grondaie, ormai cariche, si riversava sulla via come una cascata riempiendo le buche e defluendo nei tombini, ormai stracolmi, provocando delle sorti di geyser. I fulmini si ripetevano a intervalli irregolari rischiarando il cielo plumbeo e il fragore del tuono faceva persino tremare i vetri delle finestre. L’ira di Dio si era scatenata sulla città. Valentina, correndo, cercò riparo in un bar litigando con l’ombrello che non voleva saperne di stare aperto. Era ormai zuppa dalla radice dei capelli fino alla punta dei piedi. Il cappuccio della felpa, abbassato sul capo, le impedì di vedere l’altra persona che stava correndo per entrare nello stesso locale, andandoci a sbattere contro. “Mi scusi” chiesero tutti e due all’unisono. ”Prego passi prima lei” incitò l’uomo che cortesemente le cedette il passo. Ringraziandolo Valentina alzò lo sguardo e lo fissò per qualche secondo. Era uno come tanti ma ciò nonostante aveva qualcosa di particolare che la colpì. Alto, magro, non bellissimo, dal viso rude e dai lineamenti forti, i capelli lunghi appena brizzolati ricadevano sulle spalle, occhi nerissimi. Portava un paio di jeans attillati e un giubbottino di pelle nero senza maniche sopra una camicia bianca. Ai piedi un paio di Camperos neri. Entrambi chiusero ciò che rimaneva dei propri ombrelli, infilandoli nell’apposito portaombrelli. Lo ringraziò e si accomodò al primo tavolo libero. Al cameriere ordinò un cappuccino e chiese, nel frattempo, di usare il bagno per asciugarsi almeno i capelli alla meno peggio. Quando tornò al suo posto con nonchalance gettò un’occhiata al tipo, seduto al tavolo di fronte e le scappò da ridere nel vederlo bagnato come un pulcino. I capelli lunghi stavano restituendo gocce di pioggia inondando il viso e la camicia già fradicia. Si armò di coraggio e suggerì: “Guardi che in bagno c’è l’asciugamani a getto d’aria calda, forse le può essere utile. “Grazie, non ci avevo pensato, ma a dire il vero avrei bisogno, più che altro, di un accappatoio” Rispose sorridendo mostrando i suoi bei denti bianchi e perfetti. Valentina restò folgorata dalla voce calda, suadente, pacata, le sembrava di sentire uno di quei doppiatori del cinema. L’uomo accettò il suggerimento, si alzò dalla sedia e sparì, per qualche minuto, dietro la porta del bagno. “Le spiace se mi siedo qui con lei? Ormai siamo compagni di nubifragio...” Chiese al suo ritorno. La sua richiesta era così inaspettata che Valentina riuscì solo a balbettare un “Si certo”. Lui le porse la mano per presentarsi: “Piacere, il mio nome è Roberto e lei?”- “Valentina, piacere mio” disse lei rispondendo alla stretta di mano. “E cosa fa di bello nella vita?” - Mi sto laureando in biologia…” Replicò lei. “ Brava, bella idea la sua, io invece mi sono laureato al conservatorio e sbarco il lunario facendo il cantante ai ricevimenti, non è il massimo ma sopravvivo. La conversazione andò avanti per qualche ora. Valentina scoprì che quel ragazzo aveva del talento. Lo avrebbe immaginato strafottente e pieno di sé, così a prima vista . Uno di quelli che se la tirano, e invece si rivelò una persona cordiale e molto semplice. L’uragano aveva placato la sua ira e giunse il momento del commiato tra i due. Come da prassi si scambiarono i numeri di telefono con la promessa di rivedersi in una prossima occasione. Un raggio di sole tornò a illuminare la via e le ultime folate di vento spazzarono via le nubi rimaste. Nella testa della ragazza un motivetto continuava prepotentemente a rimbalzare dalla prima all’ultima nota per ripartire da capo. Nelle ultime ore non aveva ascoltato nessuna melodia eppure quel ritornello le saltellava, in mente come un disco incantato dalla puntina difettosa, scaturendo dalle sue labbra.
...Ti verrò a prendere con le mie mani E sarò quello che non ti aspettavi Sarò quel vento che ti porti dentro E quel destino che nessuno ha mai scelto E poi l'amore è una cosa semplice e adesso..adesso...adesso te lo dimostrerò...
Se lo portò dietro fino alla soglia di casa quindi accese la radio e cercò di farsi passare quella tiritera dalla mente. Si sentiva allegra, spensierata, leggera come non le capitava da molto tempo. L’immagine di quell’uomo così stranamente attraente le ritornava davanti agli occhi solleticando la sua fantasia. Era proprio l’opposto del tipo di uomo che sognava eppure c’era qualcosa... quel “certo non so ché” da indurla ad analizzare ogni suo gesto, ogni sua parola, e ripercorrere ogni fotogramma di quell’incontro così casuale. Non osava sperare di ricevere una telefonata o un messaggio ma in cuor suo l’avrebbe desiderato. Roberto, dal canto suo, sembrava non era particolarmente interessato a quell’incontro. Tornato a casa si buttò sotto la doccia, accese il suo stereo e poi si mise ad accordare la chitarra elettrica dimenticandosi del tutto di Valentina L’autunno bussò alle porte. Il viale alberato assunse un colore arancio, il sole filtrava attraverso le foglie e i rami, con tepore e la gente indossava già indumenti pesanti. Furono per Valentina mesi frenetici: la tesi di laurea l’aveva sottoposta a ritmi pressanti con notti insonni ma finalmente, con orgoglio di tutti, appese il suo titolo di dottore in biologia molecolare e genetica nel suo studio. Sebbene non amasse riconoscimenti e feste folli i genitori le organizzarono un party a sorpresa per il fine settimana. Con la scusa di farsi accompagnare dai nonni in campagna riuscirono a mantenere il segreto. Quella domenica il cielo era terso e l’aria tiepida. Giorgio e Adele fecero salire Valentina sulla loro Audi e partirono per quella che doveva essere una visita di piacere agli anziani genitori. Non ci volle molto affinché la ragazza capì che la direzione non era quella giusta. “Ma papà, da che parte stai andando? Dovevi girare a destra al semaforo e non a sinistra, dove stai andando?” - “Non ti preoccupare faccio solo una piccola deviazione, devo passare da un amico a ritirare un pezzo per la mia collezione di dischi in vinile e poi andiamo dai nonni. Ci vorrà solo qualche minuto.” Valentina, appagata dalla risposta non fece altre domande, sapeva bene che suo padre era un accanito collezionista e se ci fosse stato un oggetto raro, in capo al mondo, avrebbe fatto di tutto per averlo. Si rilassò sul sedile e osservò il panorama di quel paesaggio a lei sconosciuto. L’Audi macinava chilometri salendo su stradine strette e tornanti a gomito, ai lati della strada tigli e platani scorrevano veloci, diradandosi nei pressi di vecchie case bianche e antichi muri a secco fino ad aprirsi su un piazzale con un grande cancello in ferro battuto e una alta muraglia. Un cartello verde annunciava l’ingresso del Castello di Masino con relativo parcheggio e ristorante. Agli occhi di Valentina si aprì uno spettacolo meraviglioso. Dal “Belvedere” poteva osservare tutto il paese sottostante, i prati e in lontananza le Alpi spruzzate di neve sulla cima. Solo allora capì che dai nonni non ci sarebbero andati. Nell’ampio parco erano stai sistemati tavolini e ombrelloni colorati, le sedie sembravano indossare un abito da cerimonia e sui tavoli svettavano grandi vassoi con frutta, e stuzzichini di ogni genere. Valentina abbracciò i genitori ringraziandoli per la sorpresa. Una musica iniziò a diffondere alcune note nell’aria mentre amici e parenti, sbucati dal nulla, le si avvicinarono per i saluti e le congratulazioni. “Dio mio ma che sorpresa! Ma non era il caso…” Esclamò commossa.- “Non è da tutti i giorni avere una dottoressa in casa” Rispose Adele abbracciando la figlia e schioccandole un bacio sulla guancia. “Bene, ora possiamo iniziare a mangiare, dopo si balla”- Irruppe Giorgio. Camerieri in livrea servirono i pasti e il complesso musicale intonò le prime note di una canzone. La voce suadente e magica del cantante fece accapponare la pelle della ragazza. “Ma io quella voce la conosco!” Si disse. Posò lo sguardo verso il gazebo con l’orchestra e credette di svenire. “Ma è Roberto!” Quell’uomo alto, dai capelli lunghi, vestito di nero con il microfono in mano era proprio lui che cantava Valentina si sentiva imbarazzata pur non conoscendo nemmeno lei il motivo. Da quella sera al bar non lo aveva più visto ed ora come per magia le era apparso davanti. “Come è strano il destino però” Pensò. L’orchestra si prese una pausa e Roberto meditò di dover andare a salutare la festeggiata, come di consueto. “Complimenti! Ho saputo che è lei la festeggiata oggi, laurea vero?” Recitò mentre ancora si trovava alle sue spalle. Valentina si sentì morire ma ebbe la certezza che lui non si ricordava affatto di quell’occasionale incontro sotto il temporale “Sì, sono io la fortunata oggi” Rispose timidamente arrossendo fino alle orecchie. “Tutta colpa dei miei genitori che mi hanno fatto questa sorpresa”. Roberto le girò intorno trovandosi di fronte e rimase stupito da tanta bellezza, accorgendosi solo allora di avere davanti quel pulcino bagnato in una giornata di diluvio. “Ma io ti conosco...ma sei proprio tu, quella ragazzina fradicia dalla testa ai piedi…” “Già” rispose quasi stizzita lei, gli aveva lasciato il numero di telefono sperando in una chiamata e invece lui se ne era subito dimenticato. “Sai, ti ho cercata tanto, ma il biglietto su cui avevo scritto il numero di telefono si era inzuppato cancellando tutto e non sono più riuscito a leggere il numero. Che piacere...dai andiamo a prendere qualcosa al bar…” Giorgio e Adele guardarono la figlia con stupore chiedendo, con lo sguardo, una spiegazione ma si dovettero accontentare di un: ”Vi spiego tutto dopo”. Si accomodarono su una panchina vicino al dehor e parlarono quanto il tempo di una canzone, cantata dai ragazzi dell’orchestra, poi però lui dovette tornare al suo dovere lasciando a Valentina il compito di chiarire con i suoi genitori. La festa continuò in allegria Valentina ricevette regali e complimenti da tutti. Con ogni ospite si fermava a chiacchierare e spiegare l’argomento della sua tesi, ma il suo sguardo inconsciamente volgeva verso il gazebo con l’orchestra beandosi della voce di Roberto che cantava splendidamente ogni canzone. Quando arrivò il momento del commiato e il ritorno verso casa Valentina, dopo aver salutato tutti, si avviò verso Roberto con il cuore che batteva all’impazzata. “Ciao, è ora di andare” Sussurrò. Lui la prese tra le braccia e le porse un bacio sulla guancia bisbigliandole all’orecchio: “Ora che ti ho ritrovata non mi scappi più, ti telefono appena sarò a casa, ma stavolta sul serio, oggi non piove e il tuo numero l’ho memorizzato sul mio cellulare! Rispose lui con una fragorosa risata. Si avviò verso i suoi genitori quando la voce di Roberto intonò un’ultima canzone: ...Ti verrò a prendere con le mie mani E sarò quello che non ti aspettavi Sarò quel vento che ti porti dentro E quel destino che nessuno ha mai scelto E poi l'amore è una cosa semplice e adesso..adesso adesso te lo dimostrerò... Valentina si voltò e accennò un sorriso pensando:” E’ proprio vero, nulla è per caso”.
IL GHIACCIO NELL’ANIMA
Lo specchio della toletta in bagno rimandava l’immagine riflessa di una donna matura di circa settant'anni. Ben curata e con un velo di trucco, dagli occhi grigi sui quali ricadeva appena la palpebra ormai atonica, i capelli castano chiaro, freschi di tintura e appena qualche ruga sulle guance. Aprì il primo cassetto, prese una salviettina imbevuta e si struccò il viso e vi passò un velo di cera di Cupra. Si specchiò di nuovo ma Amelia non si riconosceva in quella che era la sua anima. Avrebbe voluto che l’immagine rimandasse ancora quel volto un po’ scarno, coi capelli lunghi e biondi, fermati da una fascia, gli occhi azzurri e tondi, le labbra carnose e turgide, il décolleté abbronzato e sodo. Quella manciata di anni le si erano dissolti addosso come neve al sole. “Sono proprio vecchia” Pensò. Si guardò le mani sulle quali alcune macchioline, di colore nocciola, si erano sparse sul dorso. Le dita, affette da artrosi, avevano cambiato la loro postura inclinando le ultime falangi verso destra. Le unghie corte e prive di smalto avevano perso la lucentezza degli anni passati. Il fisico aveva accumulato qualche chilo di troppo ma ormai non se ne curava più. Negli anni passati aveva continuamente combattuto con la bilancia in una lotta impari: giorni di assoluta astinenza e giorni nei quali si concedeva un pezzo di torta o di cioccolato, litigando con l’ago che segnava sempre qualche chilo in più. Si era flagellata di rimorsi per aver ingerito una pizza invece di un piatto ipocalorico a base di gambi di sedano e formaggino, assolutamente light. Per metà della sua vita era riuscita a tenere una forma snella e tonica imponendosi rigidi comportamenti nutrizionali, poi arrivò la batosta e si lasciò andare alle più sconsiderate abbuffate, assaporando gusti dimenticati. Gli abiti cominciarono a diventare stretti ed ad ogni nuova stagione doveva rinnovare il guardaroba con taglie più adeguate. Si era sempre tenuta in forma per lui, oltre che per se stessa. Lo adorava come si venera un dio. Sempre attenta ad ogni suo desiderio, ad ogni suo capriccio, Amelia lo assecondava e lo accontentava sempre sebbene, qualche volta, avrebbe voluto poter dire un bel “NO”, sputargli in faccia che anche lei aveva i suoi diritti oltre che i doveri, che anche lei aveva bisogno di riposo, di passare una serata con le amiche, quelle poche che le erano rimaste, che avrebbe fatto volentieri una crociera con lui ma la risposta era sempre la stessa. “Amelia cara, ma come si fa? Non c’è tempo, non ci sono soldi!... Quando la vorresti fare la cena con le amiche? Sabato non è possibile, mia madre ci aspetta a cena e sai che si offenderebbe…” Ogni volta c’era una scusa, un diniego per qualsiasi iniziativa che lei le proponeva. Alla fine si era adagiata alla routine matrimoniale, sempre uguale cadenzata da ritmi specifici: ogni giorno le faccende di casa, la spesa con i pochi denari che lui le lasciava sul comodino, prima di uscire. Cena alle diciannove in punto e fine della serata sul divano a guardare la televisione. Ogni sabato sera a cena dalla suocera e la domenica mattina, dopo la Messa, pranzo con i genitori. Di tanto in tanto Corrado aveva un lampo di genio e offriva alla consorte una gita al lago d’Orta o una camminata fino a Stavello, all’Oasi Zegna, rientrando rigorosamente per l’ora di cena. Corrado, dopo il matrimonio, si era adagiato al ruolo di pantofolaio incallito, mai un’avventura, mai un emozione al di fuori dei soliti canoni che si era prefissato. La sua ipocondria lo portava ad assumere medicinali di ogni genere per ogni minimo malessere, o a ricorrere alle cure del medico non appena avvertiva qualcosa di insolito e, quando non aveva nessuna intenzione di compiacere Amelia, nei suoi progetti, si faceva venire un bell’attacco di panico rifugiandosi in salotto davanti alla tivù per tutto il giorno. Fu così che la donna si abituò piano piano agli umori del marito. Si accontentava del poco che le dava: qualche gita, qualche passeggiata in centro e i vari banchetti dai parenti. Tutto qui. Gli anni del sessantotto erano passati da un pezzo ormai e i figli dei fiori erano un lontano ricordo. Fu proprio in una manifestazione studentesca che Amelia conobbe Corrado. Era un bel ragazzo dai capelli lunghi castano scuro, gli occhi azzurri e una fossetta sul mento che le ricordava Kirk Douglas. Indossava sempre pantaloni attillati a zampa d’elefante, una camicia a fiori e un giubbotto di camoscio con le frange sulle maniche, inforcava un paio di Ray Ban, a prescindere dalla stagione, dalle lenti verdi, che gli aveva regalato un suo amico pilota in servizio all’Alitalia. Come tutti gli Hippy professava la libertà e la non violenza, e imbracciando la sua chitarra ipnotizzava gli amici cantando “Proposta” dei Giganti. Motivo che inneggiava a mettere dei fiori nei cannoni anziché farli sparare. Amelia dal canto suo era estasiata da quella voce ed era sempre lei a spronarlo a suonare la chitarra e cantare davanti ai falò sulla spiaggia. I suoi genitori non vedevano di buon occhio quel fannullone capellone e pur ostacolando in ogni modo la loro relazione, Amelia giunse alle nozze l’anno successivo. Corrado, che aveva lasciato gli studi di ragioneria, prima del diploma, riuscì comunque a trovare un impiego come fattorino alla Banca Sella, raccomandato da suo padre che conosceva il direttore, ma con la promessa che entro un paio d’anni avrebbe dovuto conseguire l’attestato, frequentando la scuola serale all’istituto Bona. Nonostante il dubbio che tormentava suo suocero, il ragazzo riuscì a portare a termine il suo impegno e qualche anno dopo fu premiato dall’istituto di credito con una nomina a impiegato di banca a tutti gli effetti. Amelia invece, che non aveva proseguito gli studi, fu impiegata in una industria tessile della zona come rammendatrice. Il lavoro era faticoso, non tanto per le otto ore ricurva sulla pezza da riparare, ma in quanto la vista, a mano a mano che gli anni passavano, andava sempre più peggiorando a tal punto che, tre anni dopo, dovette lasciare il lavoro per dedicarsi all’attività di casalinga e madre di due figli. Corrado in pochi anni aveva avuto degli avanzamenti di carriera, con un buon stipendio e poteva permettersi di "tenere" la moglie a casa, come si dice. L’energia frenetica di Corrado però ben presto si esaurì, il completo grigio lasciò posto ai pantaloni attillati e della sua folta e lunga chioma restò solo un vago ricordo. La chitarra, come tante altre cose, furono stipate in solaio e con essi le nottate in spiaggia con i falò e i cortei davanti agli Atenei. Il ruolo di genitore lo soffocava. Come aveva fatto suo padre con lui, Corrado impose un’educazione rigida ai suoi due figli con il risultato di avere due ventenni, che gli giravano per casa, a lui quasi sconosciuti. Era sempre Amelia che prendeva le loro parti, che si preoccupava per loro, che organizzava le festicciole per i primi compleanni. Ancora lei andava ai colloqui con i professori o li portava in piscina e in palestra. Ovviamente non poteva opporsi, il suo “non lavoro” come lo intendeva lui, di casalinga le lasciava spazio per espletare ogni esigenza verso i figli. Li crebbe con tutto l’amore che solo una madre può dare, viziandoli anche un po’ ma senza esagerare. Loro avevano preso coscienza di ciò che avrebbero potuto ottenere o meno. Finché adulti e vaccinati, lasciarono, uno alla volta, il nido per formare una propria famiglia. Amelia soffrì molto per la lontananza dei suoi pargoli, rammaricandosi che nessuno dei due le aveva ancora dato la gioia di un nipotino da spupazzare, sebbene dall’alto dei suoi, ormai, cinquant’anni suonati, si considerava una brava e paziente nonnina, ma probabilmente le due nuore non avevano ancora intenzione di aumenta re la famiglia. Fu alla vigilia di Natale del 1988 che la vita di Amelia cambiò radicalmente. Quella mattina la passò davanti ai fornelli per il cenone della sera. Come ogni anno aveva invitato i figli e le nuore e, come sempre, allestito un piccolo presepe sotto il caminetto e adagiato i regali sotto l’albero addobbato. Osservò il salone vestito a festa e fece mente locale per vedere se tutto era in ordine. Aveva prenotato il panettone farcito alla pasticceria del Corso e non le restava che andare a ritiralo. Guardò l’orologio appeso in cucina che segnava le dodici e quindici, trasalendo nel vedere che le mancavano pochi minuti prima della chiusura. “Oh mamma mia come è tardi” Esclamò a voce alta. Si infilò il giubbotto e uscì di corsa. Sostò l’auto in doppia fila con le quattro frecce davanti alla pasticceria e in pochi minuti uscì con il suo pacco appena in tempo per evitare una bella multa. “Mi scusi, vado via subito, dovevo solo prendere una cosa…” Spiegò al vigile. “Ho capito signora, ma se tutti facessero come lei stiamo freschi guardi, là più avanti ci sono dei parcheggi liberi poteva metterla lì no?” Automaticamente la donna voltò lo sguardo verso i posti vuoti quando le parve di vedere una coppia scambiarsi un bacio appassionato. “Ma tu guarda se è il luogo e il momento per certe effusioni” pensò mentre saliva in auto. “Al giorno d’oggi non c’è proprio più ritegno, e non sono nemmeno tanto giovani…” Ingranò la prima e si avviò. La via a senso unico di Biella non le permetteva di svoltare a destra e dovette per forza passare davanti ai due colombini. Un po’ per la curiosità e un po’ per lo sdegno rallentò per osservare meglio quelle persone che nel frattempo si erano presi per mano e ridevano allegramente. “Ah certo che…” il suo pensiero non prese forma ma si raggelò nello stesso istante che era stato concepito. “Corrado?” Si disse incredula. “Ma no, mi sono sbagliata, non è certo lui, a quest’ora dovrebbe essere al lavoro. Guardò l’orologio sul cruscotto che segnava le dodici e quarantacinque. Credette di morire in quell’istante. A quell’ora suo marito usciva dalla sede della Banca Sella per il solito panino con i colleghi. Il clacson della macchina dietro la fece sobbalzare, era inebetita, frustrata, annichilita ma non del tutto certa della terribile scoperta. Avanzò di qualche decina di metri, parcheggiò di nuovo e si avviò sotto i portici di Via Matteotti nascondendosi dietro ai pilastri del porticato. Quello che le sembrava Corrado e quella tipa entrarono nel bar e si sedettero al tavolo vicino alla vetrina. Senza farsi scorgere Amelia passò e ripassò davanti finché ebbe la conferma di ciò che aveva visto. Il suo pantofolaio, esaurito e con attacchi di panico sembrava in ottima salute e molto allegro. Lo vide accarezzare il volto di colei che le sedeva di fianco, passarle affettuosamente una mano sui capelli biondi e lunghi e sorriderle con quella faccia da ebete innamorato. Nascosta da un cartellone pubblicitario Amelia poteva assistere alla scena senza essere vista. Il cameriere pareva ben disposto con i due piccioncini, infatti nel prendere la prenotazione scambiò qualche battuta e fece un sorriso a trentasei denti alla donna, come se fossero clienti abituali. Le gambe sembravano diventate due colonne di marmo, il cuore batteva all’impazzata e l’urlo che avrebbe voluto far uscire dalla bocca le si era strozzato in gola, intanto che due lacrimoni le scendevano copiosi sulle gote. Una miriade di pensieri le passarono per la testa, una lotta estenuante tra l’azione e la riflessione. Avrebbe voluto entrare e fare una scenata ma poi si tirò indietro e decise di tornare a casa e sentire dalle labbra di suo marito la spiacevole verità o la tremenda bugia. Ma perché gli amori finiscono sempre a Natale o a ferragosto?Alle quindici, come ogni giorno, Corrado girò la chiave nella toppa del portoncino e, come se nulla fosse, salutò Amelia con il suo solito “Ciao, sono tornato!” Amelia non aveva parole, le sue membra stanche, la testa piena di infiniti pensieri, il suo corpo molle e senza forze era adagiato sul divano. La cucina in disordine e il silenzio assoluto obbligò il consorte a chiederle se non si sentiva bene. Amelia con un filo di voce riuscì solo a pronunciare quattro parole: “Chi è quella donna?” Da buon fedifrago mentì fino alla nausea, adducendo una visione della moglie, che Maria era solo la sua collega e niente più, finché Amelia, sfinita di raccontare per filo e per segno ciò che aveva visto, lo liquidò con altre poche parole: “Vattene da qui, non sei più degno di avere il mio amore né la mia stima”. Lui alla fine confessò, implorò di perdonarlo, di capire, che era solo un momento di sbandamento, che tra loro non c’era stato nulla e che non poteva mandarlo via così proprio alla vigilia di Natale con gli ospiti che sarebbero arrivati da lì a poco. Amelia non volle sentire ragioni: “O te ne vai subito, immediatamente o sbatto tutta la tua roba in cortile, non c’è più Natale per me, ai nostri figli dirò la verità, vattene Corrado… vattene, sentirò l’avvocato ma adesso fammi il piacere vai lontano da qui”. Sentì la porta sbattere violentemente e il silenzio assoluto cadde come un macigno nella stanza. Si separarono pochi mesi dopo, Amelia non volle sapere né come, né dove fosse andato, sapeva solo che metà della sua vita l’aveva dedicata a lui, al suo amore incondizionato. Dovette inventarsi una nuova vita, con i pochi soldi che lui le passava per gli alimenti riuscì a vivere dignitosamente, sebbene senza tanti sfarzi. I figli, dapprima increduli, capirono che la decisione di Amelia era l’unica da prendere, aiutandola e confortandola nei momenti più tristi. Passarono gli anni e le stagioni ma per lei era sempre inverno, sentiva il freddo nel cuore e nella mente. La sua anima era stata trafitta da un piccolo, appuntito, gelido cono di ghiaccio che non si sarebbe più sciolto nemmeno nella bella stagione.